Enrica Calabresi nacque nel 1891 a Ferrara. Non sapevo nulla di lei e della sua esistenza. I libri di scuola non la citano; non ci sono strade che portano il suo nome, né una lapide in sua memoria!
Ecco cosa riporta su di lei Wikipedia:
Enrica Calabresi (Ferrara, 10 novembre 1891 – Firenze, 20 gennaio 1944) è stata una zoologa e docente italiana di Entomologia agraria.
Nata a Ferrara, si laurea all'Università di Firenze in Scienze naturali il 1º luglio 1914 con una tesi "Sul comportamento del condrioma nel pancreas e nelle ghiandole salivari del riccio durante il letargo invernale e l’attività estiva". Il 1º febbraio 1914, ancora prima di laurearsi, viene assunta come Assistente presso il Gabinetto di zoologia e anatomia comparata dei vertebrati dell’Università di Firenze. Nel 1924 le viene conferito il diploma di abilitazione alla docenza. Negli anni accademici 1936-37 e 1937-38 ottiene la cattedra di Entomologia agraria presso la Facoltà di agraria della R. Università degli studi di Pisa. Fu segretaria della Società Entomologica Italiana dal 1918 al 1921.
Il 14 dicembre 1938, fu dichiarata decaduta dall'abilitazione alla libera docenza di Zoologia perché "appartenente alla razza ebraica". Dal 1939 al 1943 insegna scienze nella Scuola ebraica di Firenze. Nel gennaio del 1944 viene arrestata trasferita al carcere fiorentino di Santa Verdiana. Muore suicida il giorno 20 dello stesso mese. Il Comune di Pisa, dietro richiesta dell'Università, ha intitolato a Enrica Calabresi la strada in cui si trova il nuovo Archivio di ateneo.
Queste brevi note non mi sono bastate e così ho ricercato altre informazioni. Il libro Un nome [1] di Paolo Ciampi [2] ha soddisfatto il mio desiderio di saperne di più su questa figura di donna e scienziata.
Ciampi delinea in punta di penna il ritratto di una donna schiva, attraverso i ricordi di chi l’ha conosciuta: alcuni suoi alunni, tra cui Margherita Hack che ha anche stilato l’introduzione al libro; l'amato nipote Francesco. Di suo possiamo leggere qualche cartolina, pochi scritti di carattere scientifico, alcuni documenti burocratici come la richiesta di dimissioni dalla cattedra di Zoologia, all’Università di Firenze.
L’autore ripercorre con sensibilità, che coinvolge e convince, la vita di Enrica Calabresi: dagli anni trascorsi in famiglia, agli studi, alla passione per la zoologia, all’amore per un promettente e brillante giovane, purtroppo caduto durante la prima guerra mondiale.
Episodio tragico che portò Enrica a rinchiudersi in un dolore profondo, accentuando le caratteristiche della sua personalità schiva e riservata.
Dalle scorrevoli pagine della narrazione emerge una figura di donna e scienziata precisa e puntuale, appassionata e determinata nel lavoro come nella vita.
La conoscenza delle lingue le permetteva di leggere i libri in lingua originale…Enrica era troppo preparata e intelligente per non aver intuito quanto stava per avvenire nella vita sociale e politica italiana dell’epoca e per non dare retta alle voci provenienti dalla Germania sulle deportazioni e sui lager.
La sua scelta di non riparare in Svizzera, come fecero in maggioranza i membri della sua famiglia che si salvarono, fu indubbiamente una scelta dettata dalla sua personalità coerente. Perché Enrica rimase a Firenze sino al momento dell’arresto, avvenuto in seguito alla denuncia di qualcuno, non si sa chi.
E così avvenne che, tra le mura di un’oscura cella, il 20 gennaio 1944, alla vigilia di Auschwitz, ella si tolse la vita con una fialetta di veleno: atto estremo consumato per non piegarsi agli eventi decretati dalla barbarie umana. Un modo per rivendicare la propria libertà e dignità, un modo, se volete paradossale, per non essere un numero tra quegli infelici ebrei tradotti e trucidati nei campi di sterminio tedeschi.
Scrive Margherita Hack, sua allieva, nella prefazione del romanzo di Paolo Ciampi: "[...] Una donna estremamente timida, che chi, come me, ha conosciuto solo come la professoressa di scienze: una figura di cui ci si sarebbe dimenticati facilmente, se non fosse per il fatto di essere stata colpita da quella ingiustizia disumana che furono le leggi fasciste sulla difesa della razza ariana. Infatti Enrica Calabresi si era macchiata della grave colpa di essere ebrea [...] E' anche la storia di un'epoca compresa fra le due grandi guerre mondiali; la storia degli ebrei italiani [...] Questo libro si pone a pieno titolo accanto a quegli indimenticabili documenti della barbarie nazifascista che sono il Diario di Anna Frank e Se questo è un uomo di Primo Levi. Senza dimenticare che il grande merito di aver sottratto all'oblio il lavoro scientifico di Enrica va a due ricercatrici della Specola, il Museo di Storia Naturale dell'Università di Firenze, Marta Poggesi e Alessandra Sforzi [...] Questa storia ci fa rivivere quegli orrori, che non dovremo mai dimenticare, perché non si ripetano. Mai più".
Scrive Paolo Ciampi, nel suo blog:
“L'ho vista cacciare dalla scuola da un giorno all'altro a causa delle leggi razziali. Questo mi ha aperto gli occhi su cosa può fare una dittatura.”
Ecco, Margherita Hack, la grande astrofisica, ricorda così la sua professoressa al liceo, donna innamorata di scienza che a tanti ha trasmesso l'amore della scienza. La professoressa Enrica Calabresi. Una donna minuta e taciturna, segnata profondamente dal dolore. Una scienziata cacciata dalla ricerca e dall'insegnamento perché ebrea.
Della sua professoressa Margherita Hack ha già parlato diverse volte, con una fedeltà che trovo commovente. Lei, la scienziata affermata. Torna ora a parlarne in una conversazione con Daniela Gross pubblicata su Pagine ebraiche, con un titolo che forse è la cosa più bella: Ho scelto la libertà nel nome di Enrica.
Margherita Hack incontrò per l'ultima volta la sua professoressa in una via del centro di Firenze, quando ormai si era scatenata la grande caccia all'ebreo. Mi parve un animale braccato. Di lì a poco l'arrestarono e si suicidò nel carcere di Santa Verdiana, alla vigilia di quel treno che la avrebbe dovuta consegnare ai forni di Auschwitz.
Di Enrica Calabresi fino a qualche anno fa era rimasto solo il nome, che non era facile collegare nemmeno all'orrore delle persecuzioni razziali. Sono contento di aver scritto un libro, Un nome appunto, che racconta la storia di Enrica Calabresi. Sono contento che Margherita Hack dimostri ancora una volta che scrutare le stelle non è un buon motivo per ignorare le storie degli uomini.
I professori che valgono hanno sempre buoni allievi. E viceversa.
*****
Riporto di seguito il contenuto di pag. 13 del romanzo di Paolo Ciampi.
Pagina 13
Un nome
Capita a volte che qualcuno
raccolga un rametto spezzato
e portandolo con sé
ne provi compassione.
Chi raccoglierà i nostri figli
chi ne avrà compassione
nessuno nessuno nessuno.
Myriam Ulinover, poetessa morta ad Auschwitz
Un nome. Anzi, all'inizio nemmeno quello.
All'inizio c'è il silenzio. Un vuoto senza emozioni. Come se un buco nero avesse risucchiato tutta una vita.
Solo dopo diventa un nome: di quelli che si perdono tra i tanti. Pensate a una spiga in un campo di grano, oppure a un granello di sabbia che scivola tra le mani. O piuttosto, a un cadavere tra gli innumerevoli nella fossa comune della Storia.
Enrica Calabresi, zoologa.
Nessuna strada porta oggi il suo nome. Non c'è lapide che la ricordi, né libro di scuola che la rammenti. E anch'io: cosa mi rappresentava fino a ieri? Un nome che non ti dice niente, che non ti lascia niente. Un nome che ti fai ripetere, per controllare se hai capito bene, per prendere tempo e rovistare nei ripostigli della memoria. Fai fatica perfino a immaginarti che possa corrispondere a una persona che è stata viva. A un cuore, a una testa, e naturalmente anche a un corpo. A una donna e solo a lei.
Questa vita in realtà io l'ho percepita dalla fine. Dall'epilogo che l'ovvietà del linguaggio ci fa liquidare come tragico, e tanto basta, andiamo oltre.
Enrica Calabresi la professoressa ebrea.
Enrica Calabresi, una piccola inerme preda per i cacciatori nazisti.
Enrica Calabresi, suicida in una notte del gennaio 1944. Una fiala di veleno svuotata in cella per darsi la morte piuttosto che subirla nel mattatoio di Auschwitz.
E poi?
Il poi è una foto sbiadita che la ritrae di profilo. Una figura minuta, colta negli anni della giovinezza. Lo sguardo che si spinge lontano, non si sa bene dove.
Non un'espressione impaurita, perché non c'è ancora da avere paura. C'è solo da decifrare il futuro.
I capelli tirati all'indietro; il collo lungo che spunta da una camicia bianca, senza la tentazione di una collana o di un orecchino; l'espressione dolce, ingenua, forse vagamente imbarazzata, di chi non è abituata a una parte da protagonista, nemmeno per impressionare un negativo: tutto mi induce a pensare a un punto interrogativo senza inquietudine. O a un placido animale al pascolo che non ha sentore del macello.
È da qui che bisogna cominciare.
Da qui e da alcune domande.
Mi interrogo. Quanto so davvero dell'Olocausto?
Quanto degli anni delle persecuzioni razziali?
Sì, ho studiato i manuali di storia. Ho divorato un certo numero di libri, quasi uno scaffale della mia libreria. In televisione non ho mai cambiato canale a cuor leggero di fronte alla testimonianza di un superstite, a un filmato in bianco e nero con le immagini sgranate. Ho provato a misurarmi con l'immensità del male, a concepirlo. Mi sono chiesto e chiesto ancora come sia stato possibile.
Alla fine mi sono sempre dovuto arrendere. Arrestarmi di fronte al muro del non vissuto. Adagiarmi sul ciglio della strada, come un autostoppista stremato.
Penso ai numeri dell'ecatombe. Quanti sono stati? Sei milioni? Qualcuno meno, qualcuno di più?
Troppi zeri: è una cifra così enorme da perdere di consistenza. Il suo significato si smarrisce. Non riesco a contare sei milioni di uomini, di donne, di bambini. Non posso vederli. Non posso immaginarmeli uno accanto all'altro.
Ma sarebbe lo stesso, e sarebbe sempre troppo, con uno zero in meno, con due zeri in meno, con tre zeri in meno. Anche mille sono inconcepibili, anche cento...
Lo so, c'è un solo numero che mi consentirà di comprendere.
Uno.
Uno, perché una sola è la persona. Quella persona. Proprio quella e non altre. Lei che ho scelto per accompagnarmi. Lei, purché ne riesca a cogliere la vita prima della morte.
Enrica.
Quel volto.
Di lei cosa è rimasto?
Una manciata di foto e di lettere conservate dalla famiglia; alcuni scritti scientifici con lo stile esatto e asciutto che ci si aspetta in pubblicazioni di questo tipo; un mucchietto di moduli compilati per adempiere a qualche obbligo burocratico; i ricordi sfumati di un anziano nipote per il quale era come una mamma; la gratitudine di qualche allievo di un tempo, scampato al massacro e oggi disperso tra Milano e Gerusalemme; qualche citazione di sfuggita — e spesso incerta — in due o tre volumi sui tristi destini degli ebrei italiani.
Tutto qui.
Queste sono le coordinate di cui dispongo per tracciare la mappa di una vita.
Nient'altro, perché di Enrica è più facile dire ciò che non è stata che quello che è stata. Non è stata un premio Nobel della scienza, non è stata una personalità della politica, non è stata un'eroina della Resistenza, non è stata una intellettuale impegnata, non è stata...
E in realtà so già dove approderò, alla fine di questo viaggio intorno a una donna.
Opporrò la mia personale banalità alla banalità del male. E potrò dire che Enrica, in fondo, è una di noi, una dei sei milioni di persone tra cui anche noi avremmo potuto essere.
Che Enrica è soltanto Enrica e che per questo, precisamente per questo, è necessario trattenerne il ricordo.
Ed è da qui che voglio cominciare.
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[1] Giuntina, Firenze, 2006 , pag. 232, cop.fle., dim. 13,4x21x1,4 cm , Isbn 88-8057-265-2
[2] Paolo Ciampi
Un post che ho letto senza mai fermarmi.
RispondiEliminaUn post che so che mi farà pensare molto
Ogni parola a questo post è superflua
e stonerebbe, ci sono storie che vanno lette
silenziosamente, per meglio sentirle
per non dimenticarle.
La storia di Enrica non è la storia di un nome
ma è la storia di una Donna
che con dignità ha saputo affrontare
con coraggio la scelta di restare a Firenze
in un momento difficile, pur sapendo
il pericolo che correva.
Il suo suicido è stato il suo grido di libertà
forse estremo come dici tu Annarita
ma lei ha risposto alla follia del momento
con la follia, anche se son convinta che
La scienziata Enrica Calabresi
nella sua mente aveva già il suo piano
ben progettato.
Grazie Annarita un'altra storia
che non conoscevo.
Un bacione e notte serena
PS Sai che penso Annarita che quando vengo
su scientificando e Matematicamente
mi devo vestire per bene, in segno di rispetto
per meglio onorare le importanti
persone che incontro nei tuoi blog.
bacione
Cara Annarita, quanti come te?
RispondiEliminaAvevo appena finito di dire «... Ecco il momento cruciale della vita, l'incertezza, la sede di pionieri, infiniti "numeri" che poi scompaiono. Ma quelli successivi, che si conoscono nella storia per la loro fama, meritano tanti elogi e addirittura premi Nobel? No, se non si volgono "indietro" in contemplazione di chi li ha ispirati.» e tu ti sei "voltata" di scatto e hai "conteplato Enrica Calabresi. Non sei fra le accademiche coronate ma vale quella giovanile corona di alloro e fiori delle laureande che tu cingevi quel giorno felice nell'ateneo di Fisica. Vale eccome!
Hai raccolto con religione quel "rametto spezzato" provando infinita compassione. Sì che raccoglierai i suoi "figli" che sono fra i tuoi scolari, avendone fatto lo scopo della tua vita come insegnante! Quanta passione, quanto amore vedo in te amica mia!
Gaetano
RispondiEliminaGrazie a te, cara Maria, per i bellissimi e struggenti versi che hai dedicato a Enrica e a tutte le vittime dell'Olocausto. Non potevi concepire pensiero più pregnante.
Un abbraccio.
RispondiEliminaLa storia di Enrica non è la storia di un nome ma è la storia di una Donna...
Hai colto pienamente il senso del post, Rosaria. Sei una persona intelligente e sensibile: non poteva essere diversamente!
Un bacione.
RispondiEliminaMaria, non devi scusarti. I tuoi apporti sono sempre significativi.
L'articolo che hai riportato è ben fatto e in sintonia con il post.
Ti ringrazio.
Bacione.
Grazie a te, cara Adele, per aver riportato uno stralcio dell'articolo di Elena Loewenthal.
RispondiEliminaUn saluto caro.
RispondiEliminaCara Lisetta, ho già avuto modo di apprezzare la tua sensibilità. Il post non è certo allegro, ma occorreva pubblicarlo. I versi di Maria sono struggenti e belli, hai ragione.
Un salutone.
RispondiEliminaDobbiamo ricordarci sempre di quest'orrore e non solo il 27 gennaio, giornata della memoria!
Completamente d'accordo, Emanuele!
Come poi alcuni possano negare l'Olocausto contro l'evidenza dei fatti...è un mistero!
Un salutone.
Il tuo post restituisce una piccola voce ad una donna schiva e timida. Una donna di scienza, un insegnante. Mi hai commosso.
RispondiEliminaLa storia di Enrica Calabresi ha commosso anche me, Rosalba! Impossibile resistere al suo richiamo...
Un abbraccio.