pubblico un contributo di Paolo Pascucci per Scientificando.
L’altra faccia della depressione
Il numero di novembre di Mente&Cervello [1], nella sezione Frontiere della Ricerca, presenta la recensione di un articolo che parla degli ultimi sviluppi nello studio della depressione. Sono gli stessi autori dell’articolo a farne una presentazione per la rivista.
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L’articolo comincia così: “La depressione è un paradosso evolutivo”.
Infatti, si chiedono gli autori, stante l’enorme diffusione della malattia, si parla che dal 30 al 50 per cento della popolazione americana ha avuto, almeno una volta, i sintomi della depressione cosiddetta maggiore, come mai, considerato il ruolo del cervello nella sopravvivenza di animali umani, si sarebbe dovuto conservare un così elevato tasso di malfunzionamento cerebrale?
Non può essere invocata la spiegazione che questa patologia riguarda solamente la terza età, perché notoriamente ne sono afflitti anche adolescenti e adulti. Pure l’ipotesi di un mancato adattamento di alcuni alle repentine modifiche degli assetti sociali, in pratica l’enorme cambiamento dei modelli sociali avvenuto nel giro di poche decine di migliaia di anni, che non avrebbe permesso un ‘adeguamento’ genetico agli stili di vita attuali, bene anche questa ipotesi decade, poiché si ritrovano casi di depressione anche in popolazioni primitive odierne, come ad esempio i !Kung dell’Africa Meridionale o gli Ache del Paraguay.
La tesi che presentano gli autori tiene quindi conto di questo aspetto particolare della depressione: il suo poter essere qualcosa di ‘utile’.
5HT1A: non è un numero di serie ma un recettore che si lega alla serotonina.
Si è verificato nei topi che i roditori privi di questo recettore mostrano meno sintomi depressivi in risposta a stimoli stressanti. E si è anche appurato che la parte funzionale del recettore 5HT1A del topo è simile al 99% a quello umano. Questo potrebbe significare sia l’importanza del recettore, databile quindi piuttosto indietro nella storia filogenetica dei vertebrati, che la sua stabilità e utilità. Se il recettore conserva anche la depressione, questo può significare che si tratta di una caratteristica anch’essa utile.
A questo punto, per contrastare un po’ con la nuova immagine, forse fuorviante, di questa patologia, gli autori si affrettano a dichiarare che non stanno affatto dicendo che la depressione non sia un problema serio. Siccome il fatto che la depressione è una patologia grave e debilitante è una cosa acquisita e da tutti conosciuta la diamo per scontata e tiriamo avanti.
Qual è una delle caratteristiche fondamentali del depresso? Riflettere sui propri problemi.
Questo genere di attività mentale viene definita rimuginazione e, detto per inciso, non riguarda unicamente il depresso ma anche molte altre patologie dell’umore e mentali. Gli autori ci dicono che molti studi hanno riconosciuto che questo stile di pensiero è molto analitico.
Che significa analitico? Significa la capacità di dividere un problema complesso in tanti mini-problemi più semplici, e affrontarli uno alla volta. (Aggiungo io che forse,
dipendentemente da questo modello di pensiero, il depresso, pur indagando a fondo la realtà attraverso l’analisi, non riesce a fornire una risposta adeguata al suo specifico problema, per il difetto opposto: incapacità –anche se indiretta-di vederne la ‘sintesi’).
A riprova di questo legame (depressione –leggera-e aumento dell’attività analitica) gli autori portano (senza citarli in questo articolo) alcuni loro studi in cui si evidenziava che quei soggetti che si deprimevano di più, in problemi complessi di un test di intelligenza, fornivano i risultati migliori.
Per mantenere l’attenzione necessaria a avere una utile concentrazione mentale per questa analisi, un’area cerebrale, la corteccia prefrontale ventrolaterale (VL-PFC), deve rimanere attiva per tutto il tempo. L’utilizzo strenuo di quest’area comporta un maggior consumo energetico e anche un conseguente aumento del rischio di danneggiamento neurale da sforzo.
Gli studi sui ratti dimostrano che il recettore 5HT1A è sia coinvolto nel fornire energia che nel proteggere i neuroni della VL-PFC. E questo fatto spiegherebbe il mantenimento di questa caratteristica ‘analitica’ della ruminazione come rilevante dal punto di vista evolutivo.
Altri sintomi, per così dire, collaterali, sarebbero, in quest’ottica, utili a rafforzare l’ipotesi: per esempio l’isolamento sociale del depresso, o la sua ridotta capacità (a volte) di godere di cibo e sesso. Insomma, quelle attività che possono interferire con questa caratteristica della depressione, sono, per così dire, a volte temporaneamente inibite.
Esistono prove che la depressione è un utile solutore di problemi? Gli autori dicono che se la prassi della rimuginazione fosse nociva, allora, come spesso accade in ambiente psicoterapeutico, incoraggiare un depresso a scrivere dei suoi problemi dovrebbe rallentare la soluzione. Invece accade il contrario. Anche nella soluzione di dilemmi sociali il metodo analitico (ripeto, favorito da un certo grado di depressione) consente un maggior repertorio.
Per finire, i due autori concedono qualche riflessione sulla portata sociale della patologia. Sul fatto di come venga vissuta con imbarazzo o dolorosamente, e che molti tendono a tenerla nascosta.
Cito le loro parole: “Ma la depressione è il modo in cui la natura ci dice che abbiamo complicati problemi sociali, che la nostra mente è impegnata a risolvere.”[2]
Non sono d’accordo. La depressione genera la malattia. Se accettiamo l’ipotesi che il recettore 5HT1A concede un vantaggio selettivo al suo possessore nell’esaminare
‘analiticamente’ i problemi che gli si presentano, lo stabilirsi conclamato della malattia non è altro che un effetto indiretto di questa abilità. In questo senso trovo fondante l’ipotesi che una caratteristica importante come il metodo analitico possa generare, come effetto collaterale, l’estensione del metodo a tutte le questioni della vita del soggetto, esitando poi in una difficoltà di gestione dei rapporti sociali che ‘pretendono’, comunemente, un minor grado di analisi e uno maggiore di sintesi.
E comunque però ritorno d’accordo con i due autori quando affermano che la
rimuginazione, scritta e possibilmente mostrata e condivisa da qualcuno, sia un ottimo sistema terapeutico.
Ma ora, caro lettore, due domande mi sorgono spontanee:
- come mai la rimuginazione scritta, e fatta leggere, è terapeutica?
- E la seconda, che è anche una mezza risposta alla prima, è: perché condividere un problema con gli altri porta sollievo?
[Seguirà un secondo articolo]
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[1] Mente&Cervello, n. 59, anno VII, novembre 2009
[2] Mente&Cervello, n. 59, anno VII, novembre 2009, pag. 107.
RispondiEliminaSembra quaisi serio: ma forse è il luogo che conferisce...
[paopasc]
RispondiEliminaIl contenuto è serissimo indipendentemente dal luogo. Ancora grazie.
Cara Annarita, parlare della depressione
RispondiEliminaè un argomento molto serio , hai fatto bene a fare un post.
Rispondo alle tue domande.
Per anni si è sempre creduto che per curare la depressione bastava parlare, per anni è stata vista come male dell'anima , invece, la scienza ha dato una risposta che è quella che tu hai scritto nel post. colpa dei recettori... parlare può aiutare ma non so quanto.
Condividere un problema con gli altri un pò di sollievo lo da anche a persone non depresse, in fondo l'uomo è fatto per comunicare e non solo sul lato pratico. Anzi, certe volte parlare di un problema aiuta a smussarlo e si da luce alle ombre, questo certamente non è chi si può fare con tutti..
.a differenza che il depresso cerca aiuto in tutti, perchè si sente cosi a disagio che vorrebbe capire se è lui a sbagliare e chiede sempre conferme...
Ho una carissima persona che è depressa, non le manca nulla, eppure le trema sempre la terra sotto i piedi e che lei capisce che c'è qualcosa in lei che non va e lotta ce la mette tutta, ma ricade sempre...ecco perchè io sono fermamente convinta che la colpa sta in questi recettori.
Buona Primavera
un bacione e buona Domenica.
L'anonimo sono io
RispondiEliminaRosaria
RispondiEliminaCara utente anonima (non vedo il nome...) con riguardo alla tendenza in atto in ambito scientifico a ridurre le patologie della psiche a questioni quantitative ti suggerisco la lettura sul blog di Gravità Zero la comunicazione dei risultati di due ricercatori italiani sul ruolo del metabolismo lipido (soprattutto acido arachidonico e oleico) delle piastrine nella depressione e nelle patologie cardiache.
Con riguardo allo specifico se è pur vero che un dismetabolismo dei neurotrasmettitori o un'anomalia recettoriale è spesso causa dell'instaurarsi della maggior parte delle patologie di definizione psichiatrica, curabili quindi con farmaci che ripristinano l'equilibrio perduto,è anche vero che, nel versante terapeutico, non poche sono le dimostrazioni dell'effettività di un lavoro misto, chimico-psicoterapeutico o anche puramente psicologico.
L'importanza di questi studi è comunque quella di fornire un substrato fisico a quelle che molte volte vengono viste solo come disposizioni caratteriali, quasi come se l'individuo stesso, di sua spontanea volontà, propendesse per una visione della vita come cosa inutile e dolorosa.
[paopasc]
RispondiEliminaUna ulteriore dimostrazione, Andrea, della difficoltà di definizione di una "norma" o normalità che prescinda dalla collocazione geografica e ambientale degli organismi. E una conferma dell'azione della selezione naturale che premia i tratti più adatti all'ambiente specifico.
Otima segnalazione.
[paopasc]
RispondiEliminaCara Rosaria, caro Andrea, sono in totale accordo con i commenti, di risposta ai vostri, lasciati gentilmente da Paolo Pascucci, autore dell'articolo sulla depressione.
Ringrazio tutti degli interessanti elementi che arricchiscono il contenuto del post.
annarita
RispondiEliminaCommentatore/commentatrice n.9, la ringrazio del commento, al quale Paolo risponderà adeguatamente. Sarebbe, però, buona "norma" presentarsi quando si entra in una discussione.
La ringrazierei se volesse gentilmente farlo.
annarita ruberto
RispondiEliminaAndrea, ti ringrazio di avere ovviato e ti ringrazio nuovamente per il corposo e significativo commento. :)
annarita
RispondiEliminaPosto che una definizione della norma, con riguardo a parametri quali quelli biologici così soggetti a variazione inter-individuale, è necessaria per stabilire più o meno un confine tra stato patologico (quindi da curare) e stato normale, e verificato che a questa condizione si possono portare eccezioni che però non ne alterano il significato, noto, rispetto a variazioni fenotipiche degli individui, che a volte esitano in stati di patologia, come ciò debba ricercarsi in quella caratteristica sempre presente nell'evoluzione dei viventi, che è un po' la bibbia dei biologi, e che è la selezione naturale con il corollario, per esempio, della teoria epigenetica, la quale assume che nello sviluppo guidato dal genoma intervengano fattori ambientali a modificare l'espressione di quel patrimonio. Le due cose sono ovviamente distinte, selezione naturale e epigeneticità, ma ugualmente si iscrivono quali spiegazioni di ampio respiro di situazioni "potenzialmente patologiche" quale quella in oggetto e che spesso lo diventano in seguito a influenze del tipo di società nel quale si vive.
E' questo il senso della mia notazione della difficoltà, a volte, di definizione di norma in ambito psichiatrico, per le ricadute che il tipo di società nel quale si vive portano come contributo all'espressione o manifestazione conclamata di quello che potremo chiamare un tratto comportamentale.
Per dirla in maniera chiara una situazione quale quella prospettata dagli autori avrebbe potuto non manifestarsi o manifestarsi in misura inferiore in un individuo di una società rigidamente divisa in classi, se appartenente alle elite, perchè mascherata dall'alone di autorità ereditata, oppure in società che precocemente indirizzavano in ambiti monastici sin dalla tenera età, e così via. D'accordo anche che qualora siano assenti cause immediate o remote o si manifestino i sintomi dobbiamo lecitamente pensare a una franca patologia.
Sul tema della ricerca delle cause sono con lei sul ritenere preponderanti i fattori biologici, senza però dimenticare quanto brevemente accennato sopra, e cioè quanto sia importante la rappresentazione di sè e il tipo di scoietà nel quale si vive, capace di forzare la manifestazione un aspetto della propria personalità rispetto a un altro.
Grazie del suo puntuale contributo.
Riguardo al post # 13, la gara fra Lamarck e Darwin è sempre aperta !
RispondiEliminaBanalizzando, la giraffa ha il collo lungo per potersi cibare delle alte foglie dell'eucalipto, o solo le giraffe col collo alto (ce n'erano anche col collo basso !), capaci quindi di arrivarci,sono sopravissute ?
Fattori ereditari e fattori ambientali necessariamente si mescolano, ma per poter operare, una tavola di Rorscach , da cui partire, è necessaria.
La scienza in fondo è numero, è quantificare, è poter riprodurre il risultato.
Certamente fattori culturali possono evidenziare o mascherare determinate patologie, non per niente viviamo in un'epoca in cui anoressia (e bulimia) e depressione, hanno assunto una dimensione cospicua, ma d'altra parte la schizofrenia ha incidenza invariata nel tempo e addirittura presso popolazioni completamente differenti per cultura e tradizioni.
Andrea
RispondiEliminaCaro Andrea, visto che sei una persona in possesso di una solida preparazione che spazia in diversi ambiti scientifici, ti piacerebbe partecipare al Carnevale della Fisica? In caso affermativo, potresti contattarmi al mio indirizzo di posta elettronica: annaritar5@gmail.com
Un caro saluto.
annarita
RispondiEliminaNon ho mai approfondito queste tematiche ma son convinto che il dialogo, l'esprimere le proprie difficoltà possa aiutare in questi casi. Credo sia importante non sentirsi un'isola, un qualcosa di diverso rispetto al mondo che ci circonda. Il chiudersi in sè stessi sicuramente aggrava questa condizione. Un caro saluto, Fabio